PUNTATA #7
Scampia
per me era
sempre stato un universo di contraddizioni. Non un quartiere, ma un
vero microcosmo in cui bene e male si scontravano sul terreno del
compromesso.
Quella
mattina mi ero ripetuto più volte una domanda che la maestra Masucci
aveva rivolto alla mia classe di prima elementare.
«Di
che colore è casa vostra?»,
aveva chiesto.
La
risposta era stata
banale.
«Scampia
è verde»,
avevano sostenuto i miei compagni.
C’erano
prati, parchi, aiuole ovunque lo sguardo riuscisse a spingersi. Io,
però, non ero stato d’accordo, probabilmente per spirito di
opposizione o per impressionare l’insegnante.
«Grigia»,
avevo affermato, «Scampia
è grigia.»
Avevo
sperato, crescendo, che la mia risposta cambiasse.
Non
era successo.
Mentre
aspettavo di entrare nell’ufficio dell’agente preposto per
raccogliere la mia denuncia, continuavo a vedere grigio.
Nessun
chiaroscuro, nessun contrasto.
Tutto
era indistinto, ricco di identiche sfumature.
Criminali
e poliziotti, li guardavo e non ne apprezzavo le differenze.
Legalità
e camorra, i miei giorni ne erano pieni, eppure i due termini
risuonavano nella mia testa come paroloni privi di significato.
Non
credevo in nulla, non c’era nulla a cui ispirarsi.
Avevo
osservato le fiamme ridurre la mia auto a un telaio carbonizzato.
L’aria era stata satura dell’odore acre dei copertoni bruciati e
del metallo fuso. Il calore mi aveva incollato i capelli alle tempie,
la maglia al torso bagnato di sudore. Gli stimoli intorno a me erano
tanti, un tripudio di colori, suoni, odori, eppure ai miei occhi
tutto era grigio, solo grigio.
I
poliziotti sapevano che la Fiesta non era saltata in aria per un
guasto, eppure mi avrebbero proposto una denuncia contro ignoti,
senza indagare.
Commissariato di Scampia |
Non
erano stati fatti rilievi, anche se i vigili del fuoco avevano
sospettato l’origine dolosa.
I
miei vicini, affacciati ai balconi, si erano goduti la scena come uno
spettacolo al cinema, con il vantaggio di non doversi spostare da
casa.
Prima
del rogo, tuttavia, nessuno aveva visto due delinquenti ricoprire la
carrozzeria di benzina. Era estate e alle 9.00 del mattino, si sa, si
dorme.
E
allora cosa dovevo rispondere alla domanda della maestra Anna?
Verde?
Mamma
diceva che il verde rappresentava la speranza, sul libro di Gabriele
addirittura veniva associato al senso di giustizia, alla calma.
Eh,
no.
Tra
le pareti del commissariato nessuno mi avrebbe teso una mano. E un
po’ provavo anche compassione per le forze dell’ordine, costrette
a ripulire una terra di nessuno, un territorio che per quindici anni
lo Stato aveva scordato e in cui la legge era diventata quella del
più forte.
I
De Lucia erano gli ultimi, quelli più incazzati e affamati.
E
quando hai fame, nulla è in grado di fermarti. Non esiste morale,
non ci sono valori.
Guardai
le Vele al di là della finestra, aperta per far entrare un po’
d’aria in quella domenica torrida. Decadenza e autorità
giudiziaria si fronteggiavano ai lati di una strada. Vincevano
entrambe, a momenti alterni.
Oggi
avevo perso io.
Mio
fratello, Greta, le poche settimane vissute insieme come una
famiglia.
Il
sangue chiama, il sangue pretende, il sangue non mente.
Ero
figlio della mia terra.
La
mia sbandata sarebbe stata ripulita nel sangue.
«Russo?»
mi convocò un poliziotto, la porta spalancata su uno studio angusto.
Mi
alzai e lo raggiunsi, pronto a sottopormi a una farsa.
Michele
Impero, quando era stato assegnato a Scampia, non aveva creduto a chi
gli suggeriva di non metterci il cuore. Finché non si era
rassegnato.
Parlavo
poco con il vicinato, eppure dell’agente conoscevo tutto. Ero
sicuro che, come me, anche lui sapesse di Gennaro Esposito e Ciro
Orabona.
La
signora Rosaria, l’amica di mia madre, mi aveva sussurrato i loro
nomi mentre recuperavo da casa mia i documenti e una maglietta
pulita.
Poi
era rimasta in silenzio.
Solo
in strada mi ero accorto della medaglietta della Madonna del Carmine
che mi aveva fatto scivolare nella tasca dei jeans.
Pregava
per me.
Io
pregavo per Gabriele e Greta.
Per
loro avrei sopportato ogni cosa.
E
per loro mantenni la calma, mentre aiutavo a compilare la denuncia.
Li
immaginai a mare, Gabriele nel suo costumino nuovo e Greta con il
vestito a fiori svolazzante intorno alle gambe. In questo modo,
ignorare l’espressione desolata di Michele mi sembrò meno pesante.
Nonostante
il nodo alla gola, non rinunciai a figurarmeli in acqua, nell’attesa
della fotocopia dell’esposto. Ero certo che Gabriele l’avrebbe
costretta a trascinarlo fuori di peso, con le mani rugose e il labbro
blu. Greta, dal canto suo, gli avrebbe spalmato la crema protettiva
anche dietro le orecchie. Era premurosa la mia donna, dolce. Sarebbe
stata una madre eccezionale.
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Gabriele
si abbeverava del suo calore, come facevo anche io.
Era
diventata il nostro mondo.
Eravamo
sopravvissuti per sette anni e solo nell’ultimo mese lei ci aveva
fatto assaporare la normalità, quella che mio fratello riconosceva
in alcuni compagni di scuola pur non avendola mai sperimentata.
Strinsi
i pugni sulle cosce. Avevo portato nella vita di Greta sofferenza,
preoccupazione, e quella mattina anche la responsabilità di tenere
Gabriele al sicuro.
Nonostante
tutto.
Come
era possibile?
Me
lo chiedevo ogni notte, quando la volevo vicina e tutto ciò che
riuscivo a fare era contare le macchie di umidità sul soffitto.
Mia
madre avrebbe detto che alle persone buone, se non ci pensava la
vita, ci avrebbe pensato il Signore.
Non
mi sentivo buono, ma ero pulito.
Cazzo,
ero pulito!
«Antonio,
ce l’hai un’altra macchina?» mi chiese Michele, consegnandomi la
carta d’identità e la fotocopia della denuncia.
Non
risposi, ma lo osservai. Non avevo bisogno della gentilezza in quel
momento. Tuttavia, una parte di me, quella che non era divorata dalla
rabbia, apprezzò l’interessamento.
«Abbiamo
finito, Michele?» chiesi, la voce incolore.
Ero
stanco e la domenica non era ancora iniziata. La mia festa attendeva
appena oltre la soglia del commissariato.
Non
vedevo l’ora di parteciparvi.
Volevo
che tutto finisse.
Il
prima possibile.
«Antonio...»
cominciò il poliziotto, disilluso ma non del tutto arreso
all’evidenza. Stimai il suo rigurgito di orgoglio, perché
comprendevo il suo senso di sconfitta.
«Non
devi dire niente» lo rassicurai a denti stretti. Doveva smettere di
offrirmi un appoggio che non poteva darmi.
Zero
stronzate. Volevo andarmene via.
«Ti
faccio accompagnare» concluse, deciso.
Cristo
santo, ancora non aveva capito? Non sarebbe servito a nulla.
Lo
fermai per il braccio, stringendo le dita sul suo gomito in segno di
avvertimento. I suoi occhi si sgranarono dietro gli occhiali tondi
dalla montatura di metallo, l’espressione fu vinta dal dispiacere.
«Non
serve» ringhiai, infastidito da quelle premure inefficaci. «Posso
andare via?» scandii, la voce roca per le esalazioni di fumo. Al
primo tremito, gli tolsi le mani di dosso. Non riuscivo a tenerle
ferme. L’adrenalina mi faceva vibrare i muscoli.
Respirai
a fondo, alla ricerca di equilibrio. Mi sarebbe servito. Non dovevo
commettere imprudenze.
«Stai
attento» mi consigliò Michele.
Non
mi fermai nemmeno per un cenno di saluto. Uscii dall’edificio
stringendo tra le dita la mia copia della querela e mi fermai al
limite del marciapiede.
Adocchiai
dall’altra parte della strada una BMW X5 nera e mi concessi il
tempo di chiudere gli occhi e ricordare i volti di Gabriele e Greta.
Poi
mi strappai i loro sorrisi dal cuore e dalla mente.
Dovevo
rimanere concentrato.
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L’auto
accostò davanti a me. I vetri oscurati non mi permettevano di capire
chi avevano mandato a prelevarmi.
Un
sorriso ironico mi curvò le labbra. Il vero potere non era intimare
a un paio di agenti di scortare a casa la vittima di abuso, ma
potersi permettere di infierire sul bersaglio proprio davanti al
simbolo dell’autorità, dello Stato.
Lo
sportello si aprì e vidi il viso di Genny O’
Sicculill
fare capolino dall’abitacolo.
«O’
derì, trase. Fa’ ambress»
mi ordinò. Mi chinai per entrare in macchina e mi sistemai al centro
del sedile posteriore.
Non
chiusi la portiera.
Subito
dopo, Vincenzo Capastorta
si staccò dal muro dell’edificio e raggiunse l’X5, sistemandosi
sul mio fianco destro.
«Tonì,
e fatt na strunzat»
mi disse il nuovo venuto. Poi indicò a Giovanni O’
Mastin di
partire.
Era
un caso che la spedizione punitiva fosse stata affidata a tre dei
miei ex compagni di scuola?
Luigi
De Lucia era furbo e, forse, in un altro momento la sua strategia mi
avrebbe spaventato. Otto anni fa, quando la mie priorità si
riducevano a salvare me stesso, l’imboscata fuori dal commissariato
e la visione dei miei compagni asserviti al sistema sarebbero
riusciti a farmi sentire braccato, senza speranza.
Ora,
però, le mie esigenze erano cambiate, io non ero più il centro del
mondo e la mia speranza batteva nei cuori delle due persone che
amavo.
La
loro salvezza in cambio della mia.
Non
mi interessava altro.
«Stu
strunz nun ha mai parlat»
sbottò Genny, infastidito dal mio silenzio.
Fiato
sprecato. Non mi sarei lasciato provocare.
Trovavo
ironico essere schiacciato tra il suo corpo e quello di Vincenzo.
Pensavano davvero potessi reagire o scappare?
«O’
fra’, chill mo’ capisce sul l’italiano»
intervenne Giovanni. Chissà quanto aveva fatto piangere sua madre
prima che seguisse il marito all’altro mondo. Susy davvero credeva
che il figlio potesse lasciare Scampia e rifarsi una vita.
«Tieni
ragione! Allora io mo’ parlo italiano, come la femmina tua. Ti sei
scordato che noi veniamo dalla monnezza,
sì? Lo sai che Greta bella non basta a farti uscire pulito?»
Mi
sarebbero saltati i denti ancor prima dell’impatto con i loro
pugni, se avessi continuato a serrare le mascelle.
Gennaro
aveva ragione, la vicinanza di Greta non avrebbe lavato lo sporco
dalle mie vene. Stava a me, solo a me, decidere di fare la cosa
giusta.
Sul
primo punto, però, si sbagliava. Nemmeno in un’intera vita avrebbe
imparato a parlare italiano come la mia donna.
«Genny,
a vuo’ fernì?»
intervenne Vincenzo. Era l’unico in quell’auto a ricordarsi di
quando ero io quello che picchiava più forte e li difendeva dai
Pagano, ai tempi in cui i De Lucia non erano nessuno.
«’On
Luigi a’ ditt…
ha detto» si corresse, a mio beneficio, «che deve capire bene. La
corda si spezza, se la tiri sempre.»
Annuii
piano. De Lucia mi aveva già avvisato quattro anni fa, quando avevo
rifiutato la pensione di mio padre. Era venuto da me personalmente
dopo il suo arresto, per risarcirmi.
I
soldi dello spaccio, però, non sarebbero mai entrati in casa mia.
All’epoca
Don Luigi era stato tollerante e mi aveva permesso di rinunciare
senza conseguenze. In cambio non dovevo parlare a nessuno del mio
rifiuto.
L’avevo
interpretato come una forma di riparazione. Mio padre era stato
l’unico cretino a offrirsi di entrare in carcere al posto del
fratello del boss.
Case dei Puffi, anche chiamate Case Celesti. |
Quando
arrivammo alle Case dei Puffi, dovetti ammettere con me stesso che
avevano fatto le cose in grande.
Un’esecuzione
in pubblica piazza, di domenica, alle 17.00 del pomeriggio.
Dubitavo
ci fosse un luogo meno esposto del cortile antistante le case
popolari. Volevano umiliarmi.
Ero
sorpreso, eppure i battiti del mio cuore rallentarono.
Sorrisi.
Genny
fu il primo a uscire dalla macchina.
«Scendi»
mi intimò. Lasciai che mi strattonasse fuori dell’abitacolo. Per
nulla al mondo avrei deluso le aspettative degli affiliati.
Alle
Case dei Puffi ogni famiglia percepiva trenta euro da Don Luigi per
chiudere le tapparelle. Trenta per ogni finestra.
Alzai
il volto e osservai la costruzione azzurra. Tutte sprangate. Eppure
ero certo che stessero guardando.
«Potevi
chiudere un occhio» mi sussurrò Vincenzo all’orecchio, dopo aver
fatto il giro dell’auto.
No,
non potevo.
Ma
lui non avrebbe capito.
«Nun
perdimm tiempo»
esordì Gennaro. Non ne perse.
Il
primo pugno mi raggiunse il mento.
Resistetti
al dolore causato dalle nocche e dall’anello di metallo. Non
vacillai.
Vincenzo
si portò alle mie spalle e mi incrociò le braccia dietro la
schiena.
Non
me la sarei cavata a buon mercato.
«Hai
sbagliato e mo’ devi pagare» si esaltò Genny. Rideva come un
folle per l’adrenalina e la droga, quando mi centrò lo stomaco.
«Tu
nun si nisciuno!»
urlò, poi, prendendo la mazza da baseball che gli porgeva Giovanni.
Abbassai la testa, preparandomi al colpo successivo.
Non
era possibile.
Quando
il legno impattò sul mio fianco sinistro i polmoni si svuotarono e
non riuscii a trattenere un gemito di dolore.
Le
gambe mi cedettero e mi accasciai, con un ginocchio a terra e il
piede dell’altra gamba piantato per terra.
«Prima
o poi add
fernì.»
Non
ero sicuro che Vincenzo avesse pronunciato quelle parole. Il mio
cervello era annebbiato dal dolore. Sì, sarebbe finita. Prima, però,
avrebbero fatto di me un esempio.
La
vista mi si oscurò e spintonai Capastorta
per intimargli di liberarmi. Non dovevano nominarla!
Fu
il sinistro del Mastino a tacitare la mia protesta.
Il
mio zigomo si spaccò a contatto con il suo pugno. Sentii il sangue
caldo e appiccicoso scivolarmi sulla faccia. Gennaro ne avrebbe
annusato l’odore come un animale, inebriandosene con lo scopo di
versarne altro.
Non
era ancora finita.
«Vediamo
se quando torni a casa la tua puttana apre ancora le gambe.»
Genny
lo disse in italiano. Per farmelo capire bene.
***
Gabriele
era bellissimo.
Erano
almeno dieci minuti che fissavo il suo corpicino disteso al centro
del mio letto, coperto fino alla vita da un lenzuolo.
Nonostante
la protezione solare e il cappellino che gli avevo imposto, aveva gli
zigomi e il nasino arrossati.
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Era
accaldato a causa del sole e avevo acceso il deumidificatore per
farlo riposare meglio. Non che ce ne fosse bisogno: mi ero impegnata
a sfinirlo durante la giornata ed era quasi crollato nella vasca.
Avevo dovuto lavarlo io, tra uno sbadiglio e un altro. Probabilmente
se ne sarebbe vergognato l’indomani, o forse no.
Avevo
spiato la sua espressione mentre lo aiutavo a insaponarsi ed era
sembrato soddisfatto dalle mie cure.
Antonio
aveva fatto un ottimo lavoro rendendolo indipendente, ma a sette anni
era ancora troppo piccolo per rifiutare le coccole.
Per
questo motivo, nonostante il sonno, mi ero seduta accanto a lui sul
letto e l’avevo accarezzato finché il suo respiro non si era fatto
pesante.
Cercai
sul suo viso i tratti di Antonio e le lacrime mi inumidirono gli
occhi.
Mi
ero preparata a rispondere alle domande del bambino sul fratello, ma
non erano pervenute. L’aveva nominato due volte, a pranzo, per
informarmi delle preferenze di Antonio, e poco prima di
addormentarsi.
«Greta,
gli mandi la buonanotte da parte mia? Altrimenti non prende sonno e
io lo so che dorme poco.»
Ero
ricorsa a tutta la mia forza d’animo per non scoppiare a piangere.
Mi
staccai dallo stipite, asciugandomi gli occhi con il dorso delle
mani.
La
tensione mi aveva avvinta tutto il giorno, solo concentrarmi su
Gabriele mi aveva impedito di inoltrare decine di messaggi al numero
di Antonio.
Non
avevo voluto aggiungere ai suoi problemi le richieste di una donna
isterica, ma la paura mi aveva scavato un cratere nello stomaco che
non poteva essere colmato con il cibo.
L’unico
nutrimento era la speranza, e di quella non ne avevo a sufficienza.
Mi
sedetti sul divano e scorsi la chat di WhatsApp, nell’attesa che
l’ultimo accesso segnalato si trasformasse nella dicitura “online”.
Osservai
la foto del profilo di Antonio. Quando l’avevo conosciuto c’era
l’icona standard dell’applicazione. Ora c’eravamo io e
Gabriele.
Mossi
il dito sullo schermo, permettendo alle nostre comunicazioni di
scivolare davanti ai miei occhi dall’ultima alla prima.
Non
ci scambiavamo molti messaggi, per lo più lo avvisavo dei miei
spostamenti, ma il controllo di Antonio non era sempre impeccabile e
il bisogno di me emergeva di tanto in tanto in frasi brevi ma piene
di significato.
Il
mio uomo era così: parco di parole ma intenso.
Perché
non sei qui con me?
Rilessi
la domanda risalente a qualche sera prima più volte, finché non
temetti di diventare cieca.
Perché
non ero al suo fianco? Per badare a Gabriele, ma anche per il timore
di scoprire fin dove si sarebbe spinta la vendetta del clan.
Cosa
sarebbe successo se avessi inoltrato una chiamata destinata a
rimanere senza risposta?
Il
solo pensiero mi provocò una stilettata di dolore al petto.
Mi
ripetei la rassicurazione che mi somministravo da ore: non si fanno
morti per uno sgarro da poco.
Quale
boss avrebbe rischiato un’indagine vicino casa e alle sedi della
propria attività?
Perché
non sei qui con me?
Mi
alzai dal divano e accesi le luci della cucina, poi quelle del
soggiorno, del bagno. Il buio mi soffocava, alimentava la mia
apprensione.
Entrai
nella stanza da letto di soppiatto e recuperai dal mio armadio un
pantalone e un maglietta.
Tolsi
il caffettano che mettevo in casa per stare fresca e indossai i
vestiti in tutta fretta. Controllai che nella borsa ci fossero i miei
documenti personali e quelli della macchina, poi riempii uno zaino
con gli indumenti che avevo comperato per Gabriele con la scusa dei
saldi. Tranne quei pochi cenci, non avevo nulla di suo se non ciò
che aveva addosso quella mattina.
Infine
mi avvicinai al letto.
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Accarezzai
la schiena del bambino su e giù con dolcezza, aumentando di poco la
pressione a ogni passaggio della mano.
Odiavo
doverlo svegliare, ma non potevo restare a casa un minuto di più.
«Tesoro,
sveglia» gli sussurrai vicino all’orecchio, prima di baciargli una
tempia.
Gabriele
emise un gemito di protesta. Mi si strinse il cuore al pensiero di
doverlo lasciare a casa dei miei. Antonio mi avrebbe ammazzata.
«Gabriele»
lo chiamai ancora. Quando aprì gli occhi, i suoi pugni si
sollevarono a stropicciare le palpebre incollate. Il respiro era
affrettato, come se nel sonno avesse trattenuto il fiato.
Mi
chinai e gli baciai la fronte. Smisi di cullarlo solo quando fui
certa che fosse tranquillo e desto.
«Cosa
è successo?» chiese con la voce sottile. Sembrava il lamento di un
gattino.
«Niente,
cucciolo» lo rassicurai con un sorriso. Speravo fosse abbastanza
ampio da non renderlo sospettoso. «Il mio papà non sta tanto bene e
volevo passare da casa dei miei genitori. Ti dispiace venire a
controllare con me?» inventai al volo.
Gabriele
annuì, ma i suoi occhioni scuri si chiusero di nuovo.
Presi
tra le braccia il suo corpicino addormentato e mi sollevai. Il bimbo
si sistemò in modo da stare comodo, in una posa che mi lasciava le
mani libere. Mi serviva solo la destra.
Spensi
le luci e chiusi a chiave la porta. Raggiunsi il garage interno e
adagiai Gabriele sul sedile anteriore della Lancia. Protestò un
po’,
ma non si svegliò quando gli allacciai la cintura di sicurezza.
Percorsi
i due chilometri che mi separavano da casa dei miei con il cuore in
gola. Avevo parlato loro di Antonio e Gabriele, senza nascondere
nulla. Non erano stati felici e mi avevano posto le stesse domande
che per tanti mesi avevo rivolto a me stessa. Mi ero aspettata che
insistessero nel dissuadermi, ma non era successo. Non che potessero
fare molto. Ero indipendente sotto tutti i punti di vista ed ero
uscita di casa alla ricerca di autonomia già da due anni. Strapparsi
i capelli non era nel loro stile, tagliarmi i fondi non sarebbe
servito a nulla. Erano abbastanza intelligenti da non perdere tempo a
programmare inutili strategie, ma soprattutto si fidavano di me.
Eppure,
per la prima volta, la loro Greta avrebbe mentito.
Arrivai
in via Luca Giordano che non erano ancora le 23.00. Parcheggiai in
doppia fila e al diavolo la possibile multa. Non avevo tempo da
perdere.
«Gabriele,
siamo arrivati» gli dissi, inginocchiandomi accanto a lui dopo aver
aperto la portiera dal suo lato.
Impiegai
qualche minuto per farlo svegliare. Era in pigiama e a piedi nudi.
Tirai fuori dallo zainetto un paio di ciabatte e, quando fu pronto,
citofonai ai miei.
Se
furono allarmati dal mio arrivo, non lo diedero a vedere.
Mio
padre aprì la porta e l’unica reazione alla vista di Gabriele fu
lo sgranarsi dei suoi occhi. Avrei voluto abbracciarlo, ritornare la
sua principessa e reclamare il conforto di cui avevo bisogno.
Non
era il momento.
«Buonasera»
ci accolse lui, con la voce calda e rassicurante che usava con i suoi
pazienti.
Via Luca Giordano, quartiere Vomero. |
A
sessantadue anni Claudio Liguori era ancora l’uomo di cui mia madre
si era innamorata, anche se con i capelli ingrigiti e qualche ruga.
Il
fisico asciutto, merito della sua passione per lo sport, ne
restituiva l’immagine di un uomo più giovane. Ma non lo era.
«Papà,
ti presento Gabriele» esordii senza nemmeno salutare. Pregai che
intuisse dal mio sguardo la richiesta d’aiuto.
«Tu
sei il papà di Greta?» chiese il bambino, il tono diffidente.
Dovetti
trattenere una risata, mentre Gabriele guardava mio padre di
traverso, valutandolo.
Aveva
preso molto seriamente l’ordine di proteggermi. Al mare, quel
pomeriggio, aveva allontanato un ragazzo da me lanciandogli la
sabbia.
Mio
padre sorrise, intenerito. «Sì, sono il papà di Greta. Tu devi
essere Gabriele» disse, allungandogli la mano.
Gabriele
si strinse a me, ma non si tirò indietro. Afferrò la mano di mio
padre con forza e annuì.
«Papà,
ho dovuto svegliare Gabriele perché ero preoccupata per te. Posso
portarlo nella mia vecchia stanza.»
L’espressione
divertita di mio padre cambiò nello spazio di un secondo.
«Hai
la febbre?» chiese il bambino.
Con
un cenno del capo indicai a mio padre di confermare. Rimase in
silenzio per qualche secondo ma, quando parlò, non mi tradì.
«Sì,
in estate mi ammalo sempre» affermò e Gabriele si trovò d’accordo
con lui. L’ometto spiegò al signor “Papà di Greta” che era
colpa del sudore.
Lo
portai nella mia cameretta, dopo aver chiesto a mio padre di chiamare
mamma. Non ci volle molto prima che lo scugnizzo si riaddormentasse.
Quando
mi avvicinai alla cucina trovai i miei seduti ad aspettarmi, come
quando ero piccola e dovevano discutere con me di una marachella.
«Greta
non farmi preoccupare!» si limitò a dire mia madre, la
professoressa Stefania. Il suo tono autoritario non mi impressionava
più da anni, ma la sostanza del suo avvertimento era chiara: dovevo
vuotare il sacco. Subito.
«Antonio
ha avuto un incidente con l’auto» mentii. «Non sapevo a chi
lasciare G-Gabriele» balbettai.
Le
lacrime che avevo trattenuto tutto il giorno iniziarono a scivolarmi
sulle guance. Provai a raccoglierle strofinando i palmi aperti sulla
pelle.
«Greta!»
Mamma
si alzò in piedi e mi strinse forte a sé. Mi aggrappai a lei,
provando a smorzare i singhiozzi, ma quando mio padre si unì al
nostro abbraccio non ne fui più capace.
«Lo
teniamo noi» mi sussurrava mamma per rassicurami.
Mi
abbeverai delle loro carezze e delle loro parole e, una volta
riconquistata la calma, riuscii a convincere papà a non seguirmi.
Mamma
mi accompagnò alla macchina e approfittai di quel momento per
informarla dell’intolleranza di Gabriele. Stefania Ruocco era
un’insegnante preparata a ogni evenienza e papà un medico. Il
bambino con loro sarebbe stato bene.
«Provo
a tornare prima di domani» affermai.
Dopo
un’ultima carezza materna, mi misi al volante. Mandai ad Antonio il
primo messaggio della giornata, poi misi in moto.
Ho
lasciato Gabriele dai miei genitori. Sto venendo a Scampia.
Dio,
non sapevo nemmeno se l’avrei trovato lì, ma una smania
sconosciuta mi impediva di restare in casa o insieme ai miei
genitori.
Meglio
per strada, a Scampia, che nel mondo perfetto da cui provenivo, dove
nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza del coraggio di Antonio, del
suo valore, della sfida al sistema che aveva lanciato pur intuendo le
conseguenze.
Quando
vidi il profilo delle Vele, spinsi il piede sull’acceleratore.
Le
strade erano vuote come sempre, le finestre sigillate anche in piena
estate. Raggiunsi la seconda Vela e notai appena la mancanza dei
drogati. La piazza di spaccio non era stata ancora riorganizzata.
Non
chiusi la macchina a chiave. Prendessero anche quella, non me ne
importava.
Dovevano
lasciarmi solo Antonio.
Salii
le scale a quattro a quattro e, quando arrivai al suo appartamento,
il cuore perse un battito. Dalla finestra che dava sulla balconata
non filtrava un filo di luce.
Ignorai
il campanello che lui aveva montato e iniziai a colpire la porta con
il pugno chiuso.
Non
realizzai subito che si era aperta.
Poi
vidi Antonio.
Vele di Scampia, complesso abitativo a forma di vela romana. |
Spostai
gli occhi dal suo labbro spaccato, al sangue che fuoriusciva da un
taglio sullo zigomo tumefatto. Un occhio era quasi chiuso dal
gonfiore della palpebra, l’altro era iniettato di sangue. Dalla
fronte, un rivolo rosso macchiava la sua guancia come una lacrima.
Abbassai
il volto e deglutii per scacciare il dolore che mi stava stritolando
la trachea. La maglietta era strappata e rovinata, i pantaloni
consumati all’altezza delle ginocchia. Si teneva un fianco e ogni
suo respiro era un sibilo.
Sentii
la sofferenza di ogni ferita sulla mia carne, la mia pelle immaginò
la forza di ogni percossa. Il cuore mi si frantumò in mille pezzi.
C’era
sangue dappertutto.
Un
tempo, ero convinta che nulla fosse in grado di annientarmi.
Sbagliavo.
***
Non
avrei voluto mi vedesse ridotto in quello stato.
Mai.
Non
avevo risposto al suo messaggio per scoraggiarla, le luci in casa
erano spente per la stessa ragione.
Sarebbe
bastato rifiutarmi di aprire la porta per risparmiarle la visione del
mio viso livido, dei vestiti che ancora non avevo tolto perché mi
dolevano le spalle.
Un
uomo più forte sarebbe riuscito a escludere il rumore dei pugni
disperati sul pannello di legno e ferro.
Non
ero forte.
Avevo
bisogno di Greta.
Greta
che era in piedi davanti a me, pallida e con gli occhi spalancati. Le
sue labbra erano appena socchiuse, eppure non le era sfuggito un solo
gemito.
Mi
guardava solamente, registrando i segni delle percosse, stimando
l’entità dei danni.
Perché
non si avvicinava?
Avrei
voluto stringerla a me, annusare il profumo dei suoi capelli, sentire
il suo respiro sul mio collo.
Non
osavo toccarla.
Ero
sporco di sangue e polvere. Le mie mani non erano degne di posarsi
sulla sua pelle candida, tenera, liscia.
Deglutii
a vuoto un paio di volte, cercando qualcosa da dire, qualcosa che
fosse giusto.
Non
avevo intenzione di allontanarla, non più, ma non sapevo come
chiederle di… restare al mio fianco.
Quando
abbassò il capo, dovetti misurarmi con il timore di non aver parlato
abbastanza in fretta. La mia lingua non aveva mai risposto con
prontezza.
Poi
mosse un passo in avanti.
Trattenni
il fiato mentre si girava su un fianco per entrare in casa, facendo
attenzione a non sfiorarmi.
Mi
scostai e la lasciai passare. Ero turbato dal suo silenzio, ma decisi
di non forzarla e attendere.
Non
era scappata.
Zoppicai
per raggiungerla, sorreggendomi alla parete del corridoio con una
mano. Ero un rottame.
La
caviglia era lussata e probabilmente avevo le
costole rotte. Un’ora prima avevo messo la spalla destra in sede
premendo il palmo sul muro e urlando fino a farmi andare via la voce,
poi ero svenuto.
Greta
accese tutte le luci e si spostò in bagno. Frugò negli armadietti
alla ricerca di medicazioni, senza chiedermi dove le avessi riposte.
Voleva fare tutto da sola. Sembrava impegnarsi sul serio per evitare
di dirigere il suo sguardo su di me. Non voleva guardarmi.
Eppure
io non chiedevo altro. Volevo specchiarmi nei suoi occhi verdi e
cacciare via il dolore dalle ossa e dal cuore.
I
suoi movimenti, fino a quel momento privi di forza e intenzione, si
fecero più concitati man mano che si spazientiva. Non trovava ciò
che le occorreva.
Le
forbici caddero nel lavandino, tintinnando nel silenzio che ci
avvolgeva, il pennello per la barba le seguì insieme a qualche
scatola di medicinali.
Chiuse
i pugni, cercando di dominare l’irritazione.
Non
riuscivo a intervenire. Non l’avevo mai vista così assente.
Mi
chiesi se il suo contegno fosse dovuto al mio comportamento di quella
mattina. Il suo attacco di panico ancora mi provocava fitte di
pentimento.
Il
senso di colpa faceva più male degli ematomi.
Quando
trovò ciò che cercava, mi indicò con il capo di spostarmi per
consentirle di uscire. Lo feci troppo velocemente e mi sfuggì un
lamento.
Greta
sussultò ma non commentò. Si diresse in cucina e scostò una sedia
dal tavolo per me.
Obbedii
al suo ordine muto e mi sedetti con difficoltà, reggendomi con
entrambe le mani al tavolo.
Prima
che mi rendessi conto di ciò che stava per fare, Greta si
inginocchiò sul pavimento.
«Greta...»
iniziai, la voce arrochita. Lei scosse la testa. Non voleva
ascoltarmi.
La
nausea si sollevò dal mio stomaco insieme alla bile. Avevo provato
paura, apprensione, perfino rabbia negli ultimi giorni… ma mai
disperazione.
Non
fino ad ora.
Mi
prese una mano e me la fece appoggiare sul ginocchio, poi versò
l’acqua ossigenata su un batuffolo di cotone.
Pulì
ogni dito. Non avevo reagito e le mie nocche erano integre. Il sangue
che le macchiava era quello che avevo tamponato dall’emorragia al
naso.
Passò
alle braccia, alla lacerazione sul gomito provocata dalla mazza da
baseball.
Un
batuffolo dopo l’altro, scuro di sangue coagulato e sporcizia, fu
abbandonato sul pavimento grigio.
E
Greta era… non era più assente. Era furiosa perché non riusciva a
pulirmi, perché ogni striscia di pelle liberata dal sangue riusciva
solo a mettere in risalto quanto fosse corrotto il resto.
Si
arrese e si concentrò sul mio viso, le lacrime le allagavano gli
occhi.
Non
ne aveva ancora versata una.
«Greta»
la chiamai, incapace di sopportare il suo dolore un secondo di più.
Provai ad afferrare le sue mani, ma non ci riuscii.
Incurante
del mio tentativo di bloccarla, mi tamponò il taglio sulla fronte.
La
nuova posizione la costrinse a incontrare il mio sguardo.
Le
sfuggì un singhiozzo e si asciugò la guancia sulla spalla con un
gesto di stizza. Mi stava uccidendo.
Le
presi i polsi e la immobilizzai.
Le
sue dita tremavano come uccellini impazziti.
«Basta
Greta» sussurrai. La mia era una preghiera.
Lei
scosse la testa con violenza, provando a liberarsi dalla mia presa.
La
tenerezza mi invase il cuore e la commozione mi strinse la gola.
«Piccola,
basta» ripetei, usando per la prima volta un vezzeggiativo.
Io
avevo bisogno di lei, senza Greta non ce l’avrei mai fatta a
sopportare quella giornata. Ora lo sapevo: non era solo la mia donna,
Greta era la mia migliore amica, un nuovo motivo per affrontare la
mia vita complicata, la ragione per cui mi sentivo completo.
«Non
riesco a medicarti» mormorò, la voce spezzata dal pianto. «Io non
ne sono capace...» Mi guardò, scusandosi, implorando il mio
perdono.
«Non...
mi dispia…»
«Shh»
le sussurrai sulle labbra. La tirai sulle mie gambe, ignorando il
dolore alle costole e alle spalle. «Zitta» ribadii, stringendomela
al petto, accogliendo le sue lacrime, versando le mie tra i suoi
capelli.
«Mi
dispiace» continuò Greta. «Mi dispiace così tanto.»
Non
era colpa sua.
Non
era colpa nostra.
La
allontanai da me per guardare il suo volto. Mi era così caro. Era
tutto.
«Sono
tornato.»
Ora
le avevo trovate, le parole giuste.
La
mia promessa.
Ero
tornato da lei e Gabriele.
«Cosa
ti hanno fatto?» Il suo gemito mi graffiò i timpani. Mai più, non
avrei voluto ascoltare mai più quel tono.
Provò
ad accarezzarmi il viso, ma le sue mani erano scosse al punto che a
stento riusciva a sfiorare i lividi.
«Sono.
Tornato.» scandii, e lo feci finché lei non se ne convinse.
Poi
la baciai con dolcezza, con venerazione.
Greta
mia.
Modelli: Iliana Chernakova e Tobias Sorensen Banner realizzato da Sarah Rocchia. |
«Posso
portarti al pronto soccorso?» mi supplicò, strofinando il naso sul
mio collo e sporcandosi di sangue. Non le interessava.
Le
interessavo io.
Solo
io.
L’avrei
accontentata. L’avrei seguita ovunque. Doveva saperlo.
La
abbracciai forte.
«Tra
un po’» acconsentii, poi chiusi gli occhi.
Benvenuti a Scampia. Basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia. |
Questa
puntata è stata difficile, più delle altre. L'argomento è duro,
l'evoluzione della storia drammatica, ma ciò che mi ha creato complicazioni è stato dover descrivere il grigio.
Mi
sono chiesta più volte come traferire il senso di impotenza senza
tuttavia trascurare la bellezza intrinseca di un luogo vivo, brulicante
di umanità.
Nei
momenti di sconforto non si apprezzano i contrasti, tutto sembra
uniforme, ma la luce esiste in questa storia, e non è
rappresentata solo da Antonio.
Di
donne come la signora Rosaria ce ne sono molte, di poliziotti come
Michele anche.
Ci
sono nonne, madri e padri che come Antonio, in modo meno
spettacolare, lottano per difendere la propria integrità.
Sì,
nella puntata odierna Scampia è grigia, ma la stessa esistenza del
grigio presuppone la presenza del bianco, quello di cui vi ho parlato
qualche puntata fa, fatto di assistenza ai poveri, di volontariato,
di comunità ecclesiastiche che offrono aiuto a prescindere
dalla missione di evangelizzazione.
Non
dimenticatelo, e perdonatemi se oggi ho dato l'impressione di averlo
scordato.
Sangue
Amaro, che terminerà sabato prossimo (non è finita
qui, ahimè!), mi ha donato molto, soprattutto mi ha offerto la
possibilità di indagare le tonalità sfumate di un quartiere troppo
spesso banalizzato, di vite appiattite in favore del sensazionalismo
giornalistico.
Mi
ha regalato la vostra stima. E per questo non vi ringrazierò mai
abbastanza.
Spero
di leggere i vostri COMMENTI e di ritrovarvi ancora qui la prossima
settimana.
Vi
abbraccio.
Angela
NOTE:
* Vele di Scampia, complesso di abitazioni a uso residenziali
a forma di vele romane. Tra il 1997 e il 2003 sono state abbattute tre delle
sette Vele. Si presentano in stato di degrado.
** Commissariato di Scampia, il commissariato è stato istituito nel quartiere nel 1997, dopo esattamente quindici anni dal popolamento delle Vele. I quindici anni di assenza delle istituzioni su un territorio ad alta densità abitativa (oltre ventimila persone abitavano le sole Vele), hanno favorito la nascita e l'organizzazione della criminalità e la creazione di oltre venti piazze di spaccio.
Intervista a Michele Spina, ex commissario ---> http://tinyurl.com/hn59y93
*** Case dei Puffi (anche chiamate Case celesti), case popolari ubicate a Scampia così chiamate per il colore scelto per gli esterni, l'azzurro.
Storicamente sede di una piazza di spaccio.
Seguendo il link potete trovare un racconto del giornalista Enrico Caria ---> http://tinyurl.com/golp6qt
**** Enrico Caria, autore satirico e regista. Ha uno spazio Blog su Il Fatto Quotidiano.
Seguendo il link trovate il suo blog ---> http://tinyurl.com/hthprww
***** Via Luca Giordano, Quartiere Vomero, quartiere collinare di Napoli. La sua urbanizzazione è avvenuta a fine Ottocento. I palazzi in stile Liberty, le aree pedonali e commerciali, i numerosi giardini, lo rendono uno dei quartieri più abitabili, agiati e ricercati della città. I suoi abitanti prendono il nome di vomeresi.
** Commissariato di Scampia, il commissariato è stato istituito nel quartiere nel 1997, dopo esattamente quindici anni dal popolamento delle Vele. I quindici anni di assenza delle istituzioni su un territorio ad alta densità abitativa (oltre ventimila persone abitavano le sole Vele), hanno favorito la nascita e l'organizzazione della criminalità e la creazione di oltre venti piazze di spaccio.
Intervista a Michele Spina, ex commissario ---> http://tinyurl.com/hn59y93
*** Case dei Puffi (anche chiamate Case celesti), case popolari ubicate a Scampia così chiamate per il colore scelto per gli esterni, l'azzurro.
Storicamente sede di una piazza di spaccio.
Seguendo il link potete trovare un racconto del giornalista Enrico Caria ---> http://tinyurl.com/golp6qt
**** Enrico Caria, autore satirico e regista. Ha uno spazio Blog su Il Fatto Quotidiano.
Seguendo il link trovate il suo blog ---> http://tinyurl.com/hthprww
***** Via Luca Giordano, Quartiere Vomero, quartiere collinare di Napoli. La sua urbanizzazione è avvenuta a fine Ottocento. I palazzi in stile Liberty, le aree pedonali e commerciali, i numerosi giardini, lo rendono uno dei quartieri più abitabili, agiati e ricercati della città. I suoi abitanti prendono il nome di vomeresi.
ALCUNE CONSIDERAZIONI LINGUISTICHE:
Nelle precedenti puntate sono riuscita a trovare una soluzione per le lettrici non campane, in questo capitolo non c’è stata possibilità di mediazione.
I tre spacciatori di Scampia (Gennaro, Vincenzo e Giovanni), qualora riuscissero a esprimersi in
italiano, lo farebbero in modo regionalmente e localmente marcato, con una
sintassi e un lessico che renderebbero difficile l’interpretazione delle frasi, motivo per cui vi lascio delle note anche per i pochi pezzi in cui si esprimono in una forma di italiano lontana da quella standard.
Lo sapete, finché posso cerco di trovare un punto d'incontro, in generale però preferisco non snaturare personaggi e contesto.
O’ Sicculill, il magro. Il
magro è un soprannome, indica un ragazzo di costituzione esile.
O’
derì, trase. Fa’ ambress, Dritto (nel testo Antonio), entra. Fai presto. Il dritto è un soprannome, indica l’uomo retto, che riga dritto.
Capastorta, Capo/viso asimmetrico. IL soprannome indica la particolare conformazione del viso del personaggio, Vincenzo, che non è perfettamente simmetrico
Tonì,
e fatt na strunzat, Antonio, hai fatto un errore/stupidaggine.
O’
Mastin, il mastino. Il mastino è un soprannome, indica un ragazzo non molto alto e di costituzione tozza.
Stu
strunz nun ha mai parlat, Questo stronzo (nel testo Antonio) non ha mai parlato.
O’
fra’, chill mo’ capisce sul l’italiano, Fratello, ora lui comprende solo l'italiano.
Tieni
ragione! Allora io mo’ parlo italiano, come la femmina tua. Ti sei
scordato che noi veniamo dalla monnezza, sì? Lo sai che Greta bella
non basta a farti uscire pulito?, Hai ragione! Allora adesso mi esprimo in italiano, come la tua fidanzata. Hai dimenticato che noi veniamo dall'immondizia, vero? Lo sai che frequentare Greta bella non basta per ripulirti (dalla sporcizia, sottinteso)?
La frase è in italiano, ma un italiano regionale di tipo campano, per di più di matrice popolare.
La frase è in italiano, ma un italiano regionale di tipo campano, per di più di matrice popolare.
Genny,
a vuo’ fernì?, Genny vuoi smetterla?
’On
Luigi a’ ditt… ha detto, Don Luigi ha detto.
Nun
perdimm tiempo, Non perdiamo tempo.
Tu
nun si nisciuno!, Tu non sei nessuno!
Prima
o poi add fernì, Prima o poi deve finire.
Ogni puntata, mi provoca grandi emozioni, la tua scrittura ci porta a vivere le stesse emozioni dei protagonisti, più che leggere è quasi come vedere un film che ti fa piangere ma anche sperare di poter scorgere il verde della speranza in un grigio che occupa tutto lo spazio circostante. Strepitosa puntata, carissima Angela, aspetto sabato prossimo per l'ultima e sono io che ringrazio te di questo immenso regalo.
RispondiEliminaCi pensa già La vita a metterti i bastoni tra Le ruote, ecco perchè odio Le manfrine di certi romance dove i protagonisti si perdono per un nonnuLLa. Sempicemente La Vita è L'antagonista, cosa che fa di aLtri romance dei capoLavori
RispondiEliminaGrazie per questa bellissima puntata...questa storia così reale e viva trascina il lettore,vorrei continuare a leggerla fino alla fine ma allo stesso tempo il fatto che ogni settimana c'è una nuova puntata mi affascina ...vorrei non finisse mai...
RispondiEliminaBravissima veramente scritta benissimo ..certo oggi ho sofferto molto perché l'ingiustizia che subisce Toni è così dura da digerire ma anche così vera!!!! La vita non è giusta e a volte la subisci..aspettando il momento in cui le cose si aggiustino e migliorino ❤
Rosanna C.
Immagino sia stata dura scrivere questa puntata .... e nn immagini quanto sia stoto doloroso leggerlo ho pianto come una fontana. ..leggere di questa realtà e veramente dura !!!!ma la forza di Antonio ti da speranza che ci sarà un mondo migliore chissà. ..
RispondiEliminaUn grazie immenso a te Angela x quasta storia bellissima
Rosig 💚
Mi sento angosciata, ma ho speranza. È questa l'emozione che volevi trasmettere vero?
RispondiEliminaConosco Scampi, sono Napoletana, ma di Scampi ce ne sono tante. La speranza siamo noi, i nostri figli, i valori che gli trasmettiamo. Grazie Angela
Questa storia nn può finire sabato prossimo. È troppo bella. Voglio passare ancora in bel po di tempo con Antonio e Greta!!! Brava Angela. Sei strepitosa! !!!
RispondiEliminaI'm amazed, I must say. Rarely do I encounter a
RispondiEliminablog that's both educative and amusing, and without a doubt, you have hit the nail on the head.
The issue is something that not enough men and women are speaking intelligently
about. I'm very happy that I found this in my hunt for something regarding
this.