venerdì 15 luglio 2016

SANGUE AMARO: Puntata #7




(Nell'indice potrete trovare il link alle precedenti Puntate)

PUNTATA #7

Scampia per me era sempre stato un universo di contraddizioni. Non un quartiere, ma un vero microcosmo in cui bene e male si scontravano sul terreno del compromesso.
Quella mattina mi ero ripetuto più volte una domanda che la maestra Masucci aveva rivolto alla mia classe di prima elementare.
«Di che colore è casa vostra?», aveva chiesto.
La risposta era stata banale.
«Scampia è verde», avevano sostenuto i miei compagni.
C’erano prati, parchi, aiuole ovunque lo sguardo riuscisse a spingersi. Io, però, non ero stato d’accordo, probabilmente per spirito di opposizione o per impressionare l’insegnante.
«Grigia», avevo affermato, «Scampia è grigia.»
Avevo sperato, crescendo, che la mia risposta cambiasse.
Non era successo.
Mentre aspettavo di entrare nell’ufficio dell’agente preposto per raccogliere la mia denuncia, continuavo a vedere grigio.
Nessun chiaroscuro, nessun contrasto.
Tutto era indistinto, ricco di identiche sfumature.
Criminali e poliziotti, li guardavo e non ne apprezzavo le differenze.
Legalità e camorra, i miei giorni ne erano pieni, eppure i due termini risuonavano nella mia testa come paroloni privi di significato.
Non credevo in nulla, non c’era nulla a cui ispirarsi.
Avevo osservato le fiamme ridurre la mia auto a un telaio carbonizzato. L’aria era stata satura dell’odore acre dei copertoni bruciati e del metallo fuso. Il calore mi aveva incollato i capelli alle tempie, la maglia al torso bagnato di sudore. Gli stimoli intorno a me erano tanti, un tripudio di colori, suoni, odori, eppure ai miei occhi tutto era grigio, solo grigio.
I poliziotti sapevano che la Fiesta non era saltata in aria per un guasto, eppure mi avrebbero proposto una denuncia contro ignoti, senza indagare.
Commissariato di Scampia
Non erano stati fatti rilievi, anche se i vigili del fuoco avevano sospettato l’origine dolosa.
I miei vicini, affacciati ai balconi, si erano goduti la scena come uno spettacolo al cinema, con il vantaggio di non doversi spostare da casa.
Prima del rogo, tuttavia, nessuno aveva visto due delinquenti ricoprire la carrozzeria di benzina. Era estate e alle 9.00 del mattino, si sa, si dorme.
E allora cosa dovevo rispondere alla domanda della maestra Anna?
Verde?
Mamma diceva che il verde rappresentava la speranza, sul libro di Gabriele addirittura veniva associato al senso di giustizia, alla calma.
Eh, no.
Tra le pareti del commissariato nessuno mi avrebbe teso una mano. E un po’ provavo anche compassione per le forze dell’ordine, costrette a ripulire una terra di nessuno, un territorio che per quindici anni lo Stato aveva scordato e in cui la legge era diventata quella del più forte.
I De Lucia erano gli ultimi, quelli più incazzati e affamati.
E quando hai fame, nulla è in grado di fermarti. Non esiste morale, non ci sono valori.
Guardai le Vele al di là della finestra, aperta per far entrare un po’ d’aria in quella domenica torrida. Decadenza e autorità giudiziaria si fronteggiavano ai lati di una strada. Vincevano entrambe, a momenti alterni.
Oggi avevo perso io.
Mio fratello, Greta, le poche settimane vissute insieme come una famiglia.
Il sangue chiama, il sangue pretende, il sangue non mente.
Ero figlio della mia terra.
La mia sbandata sarebbe stata ripulita nel sangue.
«Russo?» mi convocò un poliziotto, la porta spalancata su uno studio angusto.
Mi alzai e lo raggiunsi, pronto a sottopormi a una farsa.
Michele Impero, quando era stato assegnato a Scampia, non aveva creduto a chi gli suggeriva di non metterci il cuore. Finché non si era rassegnato.
Parlavo poco con il vicinato, eppure dell’agente conoscevo tutto. Ero sicuro che, come me, anche lui sapesse di Gennaro Esposito e Ciro Orabona.
La signora Rosaria, l’amica di mia madre, mi aveva sussurrato i loro nomi mentre recuperavo da casa mia i documenti e una maglietta pulita.
Poi era rimasta in silenzio.
Solo in strada mi ero accorto della medaglietta della Madonna del Carmine che mi aveva fatto scivolare nella tasca dei jeans.
Pregava per me.
Io pregavo per Gabriele e Greta.
Per loro avrei sopportato ogni cosa.
E per loro mantenni la calma, mentre aiutavo a compilare la denuncia.
Li immaginai a mare, Gabriele nel suo costumino nuovo e Greta con il vestito a fiori svolazzante intorno alle gambe. In questo modo, ignorare l’espressione desolata di Michele mi sembrò meno pesante.
Nonostante il nodo alla gola, non rinunciai a figurarmeli in acqua, nell’attesa della fotocopia dell’esposto. Ero certo che Gabriele l’avrebbe costretta a trascinarlo fuori di peso, con le mani rugose e il labbro blu. Greta, dal canto suo, gli avrebbe spalmato la crema protettiva anche dietro le orecchie. Era premurosa la mia donna, dolce. Sarebbe stata una madre eccezionale.
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Gabriele si abbeverava del suo calore, come facevo anche io.
Era diventata il nostro mondo.
Eravamo sopravvissuti per sette anni e solo nell’ultimo mese lei ci aveva fatto assaporare la normalità, quella che mio fratello riconosceva in alcuni compagni di scuola pur non avendola mai sperimentata.
Strinsi i pugni sulle cosce. Avevo portato nella vita di Greta sofferenza, preoccupazione, e quella mattina anche la responsabilità di tenere Gabriele al sicuro.
Lei mi amava.
Nonostante tutto.
Come era possibile?
Me lo chiedevo ogni notte, quando la volevo vicina e tutto ciò che riuscivo a fare era contare le macchie di umidità sul soffitto.
Mia madre avrebbe detto che alle persone buone, se non ci pensava la vita, ci avrebbe pensato il Signore.
Non mi sentivo buono, ma ero pulito.
Cazzo, ero pulito!
«Antonio, ce l’hai un’altra macchina?» mi chiese Michele, consegnandomi la carta d’identità e la fotocopia della denuncia.
Non risposi, ma lo osservai. Non avevo bisogno della gentilezza in quel momento. Tuttavia, una parte di me, quella che non era divorata dalla rabbia, apprezzò l’interessamento.
«Abbiamo finito, Michele?» chiesi, la voce incolore.
Ero stanco e la domenica non era ancora iniziata. La mia festa attendeva appena oltre la soglia del commissariato.
Non vedevo l’ora di parteciparvi.
Volevo che tutto finisse.
Il prima possibile.
«Antonio...» cominciò il poliziotto, disilluso ma non del tutto arreso all’evidenza. Stimai il suo rigurgito di orgoglio, perché comprendevo il suo senso di sconfitta.
«Non devi dire niente» lo rassicurai a denti stretti. Doveva smettere di offrirmi un appoggio che non poteva darmi.
Zero stronzate. Volevo andarmene via.
«Ti faccio accompagnare» concluse, deciso.
Cristo santo, ancora non aveva capito? Non sarebbe servito a nulla.
Lo fermai per il braccio, stringendo le dita sul suo gomito in segno di avvertimento. I suoi occhi si sgranarono dietro gli occhiali tondi dalla montatura di metallo, l’espressione fu vinta dal dispiacere.
«Non serve» ringhiai, infastidito da quelle premure inefficaci. «Posso andare via?» scandii, la voce roca per le esalazioni di fumo. Al primo tremito, gli tolsi le mani di dosso. Non riuscivo a tenerle ferme. L’adrenalina mi faceva vibrare i muscoli.
Respirai a fondo, alla ricerca di equilibrio. Mi sarebbe servito. Non dovevo commettere imprudenze.
«Stai attento» mi consigliò Michele.
Non mi fermai nemmeno per un cenno di saluto. Uscii dall’edificio stringendo tra le dita la mia copia della querela e mi fermai al limite del marciapiede.
Adocchiai dall’altra parte della strada una BMW X5 nera e mi concessi il tempo di chiudere gli occhi e ricordare i volti di Gabriele e Greta.
Poi mi strappai i loro sorrisi dal cuore e dalla mente.
Dovevo rimanere concentrato.
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L’auto accostò davanti a me. I vetri oscurati non mi permettevano di capire chi avevano mandato a prelevarmi.
Un sorriso ironico mi curvò le labbra. Il vero potere non era intimare a un paio di agenti di scortare a casa la vittima di abuso, ma potersi permettere di infierire sul bersaglio proprio davanti al simbolo dell’autorità, dello Stato.
Lo sportello si aprì e vidi il viso di Genny O’ Sicculill fare capolino dall’abitacolo.
«O’ derì, trase. Fa’ ambress» mi ordinò. Mi chinai per entrare in macchina e mi sistemai al centro del sedile posteriore.
Non chiusi la portiera.
Subito dopo, Vincenzo Capastorta si staccò dal muro dell’edificio e raggiunse l’X5, sistemandosi sul mio fianco destro.
«Tonì, e fatt na strunzat» mi disse il nuovo venuto. Poi indicò a Giovanni O’ Mastin di partire.
Era un caso che la spedizione punitiva fosse stata affidata a tre dei miei ex compagni di scuola?
Luigi De Lucia era furbo e, forse, in un altro momento la sua strategia mi avrebbe spaventato. Otto anni fa, quando la mie priorità si riducevano a salvare me stesso, l’imboscata fuori dal commissariato e la visione dei miei compagni asserviti al sistema sarebbero riusciti a farmi sentire braccato, senza speranza.
Ora, però, le mie esigenze erano cambiate, io non ero più il centro del mondo e la mia speranza batteva nei cuori delle due persone che amavo.
La loro salvezza in cambio della mia.
Non mi interessava altro.
«Stu strunz nun ha mai parlat» sbottò Genny, infastidito dal mio silenzio.
Fiato sprecato. Non mi sarei lasciato provocare.
Trovavo ironico essere schiacciato tra il suo corpo e quello di Vincenzo. Pensavano davvero potessi reagire o scappare?
«O’ fra’, chill mo’ capisce sul l’italiano» intervenne Giovanni. Chissà quanto aveva fatto piangere sua madre prima che seguisse il marito all’altro mondo. Susy davvero credeva che il figlio potesse lasciare Scampia e rifarsi una vita.
«Tieni ragione! Allora io mo’ parlo italiano, come la femmina tua. Ti sei scordato che noi veniamo dalla monnezza, sì? Lo sai che Greta bella non basta a farti uscire pulito?»
Mi sarebbero saltati i denti ancor prima dell’impatto con i loro pugni, se avessi continuato a serrare le mascelle.
Gennaro aveva ragione, la vicinanza di Greta non avrebbe lavato lo sporco dalle mie vene. Stava a me, solo a me, decidere di fare la cosa giusta.
Sul primo punto, però, si sbagliava. Nemmeno in un’intera vita avrebbe imparato a parlare italiano come la mia donna.
«Genny, a vuo’ fernì?» intervenne Vincenzo. Era l’unico in quell’auto a ricordarsi di quando ero io quello che picchiava più forte e li difendeva dai Pagano, ai tempi in cui i De Lucia non erano nessuno.
«’On Luigi a’ ditt… ha detto» si corresse, a mio beneficio, «che deve capire bene. La corda si spezza, se la tiri sempre.»
Annuii piano. De Lucia mi aveva già avvisato quattro anni fa, quando avevo rifiutato la pensione di mio padre. Era venuto da me personalmente dopo il suo arresto, per risarcirmi.
I soldi dello spaccio, però, non sarebbero mai entrati in casa mia.
All’epoca Don Luigi era stato tollerante e mi aveva permesso di rinunciare senza conseguenze. In cambio non dovevo parlare a nessuno del mio rifiuto.
L’avevo interpretato come una forma di riparazione. Mio padre era stato l’unico cretino a offrirsi di entrare in carcere al posto del fratello del boss.
Case dei Puffi, anche chiamate Case Celesti.
Quando arrivammo alle Case dei Puffi, dovetti ammettere con me stesso che avevano fatto le cose in grande.
Un’esecuzione in pubblica piazza, di domenica, alle 17.00 del pomeriggio.
Dubitavo ci fosse un luogo meno esposto del cortile antistante le case popolari. Volevano umiliarmi.
Ero sorpreso, eppure i battiti del mio cuore rallentarono.
Sorrisi.
Genny fu il primo a uscire dalla macchina.
«Scendi» mi intimò. Lasciai che mi strattonasse fuori dell’abitacolo. Per nulla al mondo avrei deluso le aspettative degli affiliati.
Alle Case dei Puffi ogni famiglia percepiva trenta euro da Don Luigi per chiudere le tapparelle. Trenta per ogni finestra.
Alzai il volto e osservai la costruzione azzurra. Tutte sprangate. Eppure ero certo che stessero guardando.
«Potevi chiudere un occhio» mi sussurrò Vincenzo all’orecchio, dopo aver fatto il giro dell’auto.
No, non potevo.
Ma lui non avrebbe capito.
«Nun perdimm tiempo» esordì Gennaro. Non ne perse.
Il primo pugno mi raggiunse il mento.
Resistetti al dolore causato dalle nocche e dall’anello di metallo. Non vacillai.
Vincenzo si portò alle mie spalle e mi incrociò le braccia dietro la schiena.
Non me la sarei cavata a buon mercato.
«Hai sbagliato e mo’ devi pagare» si esaltò Genny. Rideva come un folle per l’adrenalina e la droga, quando mi centrò lo stomaco.
«Tu nun si nisciuno!» urlò, poi, prendendo la mazza da baseball che gli porgeva Giovanni. Abbassai la testa, preparandomi al colpo successivo.
Non era possibile.
Quando il legno impattò sul mio fianco sinistro i polmoni si svuotarono e non riuscii a trattenere un gemito di dolore.
Le gambe mi cedettero e mi accasciai, con un ginocchio a terra e il piede dell’altra gamba piantato per terra.
«Prima o poi add fernì
Non ero sicuro che Vincenzo avesse pronunciato quelle parole. Il mio cervello era annebbiato dal dolore. Sì, sarebbe finita. Prima, però, avrebbero fatto di me un esempio.
«Si ti spacc ‘a faccia, Greta se mette appaur?»
La vista mi si oscurò e spintonai Capastorta per intimargli di liberarmi. Non dovevano nominarla!
Fu il sinistro del Mastino a tacitare la mia protesta.
Il mio zigomo si spaccò a contatto con il suo pugno. Sentii il sangue caldo e appiccicoso scivolarmi sulla faccia. Gennaro ne avrebbe annusato l’odore come un animale, inebriandosene con lo scopo di versarne altro.
Non era ancora finita.
«Vediamo se quando torni a casa la tua puttana apre ancora le gambe.»
Genny lo disse in italiano. Per farmelo capire bene.


***

Gabriele era bellissimo.
Erano almeno dieci minuti che fissavo il suo corpicino disteso al centro del mio letto, coperto fino alla vita da un lenzuolo.
Nonostante la protezione solare e il cappellino che gli avevo imposto, aveva gli zigomi e il nasino arrossati.
Immagini dal web.
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Era accaldato a causa del sole e avevo acceso il deumidificatore per farlo riposare meglio. Non che ce ne fosse bisogno: mi ero impegnata a sfinirlo durante la giornata ed era quasi crollato nella vasca. Avevo dovuto lavarlo io, tra uno sbadiglio e un altro. Probabilmente se ne sarebbe vergognato l’indomani, o forse no.
Avevo spiato la sua espressione mentre lo aiutavo a insaponarsi ed era sembrato soddisfatto dalle mie cure.
Antonio aveva fatto un ottimo lavoro rendendolo indipendente, ma a sette anni era ancora troppo piccolo per rifiutare le coccole.
Per questo motivo, nonostante il sonno, mi ero seduta accanto a lui sul letto e l’avevo accarezzato finché il suo respiro non si era fatto pesante.
Cercai sul suo viso i tratti di Antonio e le lacrime mi inumidirono gli occhi.
Mi ero preparata a rispondere alle domande del bambino sul fratello, ma non erano pervenute. L’aveva nominato due volte, a pranzo, per informarmi delle preferenze di Antonio, e poco prima di addormentarsi.
«Greta, gli mandi la buonanotte da parte mia? Altrimenti non prende sonno e io lo so che dorme poco.»
Ero ricorsa a tutta la mia forza d’animo per non scoppiare a piangere.
Mi staccai dallo stipite, asciugandomi gli occhi con il dorso delle mani.
La tensione mi aveva avvinta tutto il giorno, solo concentrarmi su Gabriele mi aveva impedito di inoltrare decine di messaggi al numero di Antonio.
Non avevo voluto aggiungere ai suoi problemi le richieste di una donna isterica, ma la paura mi aveva scavato un cratere nello stomaco che non poteva essere colmato con il cibo.
L’unico nutrimento era la speranza, e di quella non ne avevo a sufficienza.
Mi sedetti sul divano e scorsi la chat di WhatsApp, nell’attesa che l’ultimo accesso segnalato si trasformasse nella dicitura “online”.
Osservai la foto del profilo di Antonio. Quando l’avevo conosciuto c’era l’icona standard dell’applicazione. Ora c’eravamo io e Gabriele.
Mossi il dito sullo schermo, permettendo alle nostre comunicazioni di scivolare davanti ai miei occhi dall’ultima alla prima.
Non ci scambiavamo molti messaggi, per lo più lo avvisavo dei miei spostamenti, ma il controllo di Antonio non era sempre impeccabile e il bisogno di me emergeva di tanto in tanto in frasi brevi ma piene di significato.
Il mio uomo era così: parco di parole ma intenso.
Perché non sei qui con me?
Rilessi la domanda risalente a qualche sera prima più volte, finché non temetti di diventare cieca.
Perché non ero al suo fianco? Per badare a Gabriele, ma anche per il timore di scoprire fin dove si sarebbe spinta la vendetta del clan.
Cosa sarebbe successo se avessi inoltrato una chiamata destinata a rimanere senza risposta?
Il solo pensiero mi provocò una stilettata di dolore al petto.
Mi ripetei la rassicurazione che mi somministravo da ore: non si fanno morti per uno sgarro da poco.
Quale boss avrebbe rischiato un’indagine vicino casa e alle sedi della propria attività?
Perché non sei qui con me?
Mi alzai dal divano e accesi le luci della cucina, poi quelle del soggiorno, del bagno. Il buio mi soffocava, alimentava la mia apprensione.
Entrai nella stanza da letto di soppiatto e recuperai dal mio armadio un pantalone e un maglietta.
Tolsi il caffettano che mettevo in casa per stare fresca e indossai i vestiti in tutta fretta. Controllai che nella borsa ci fossero i miei documenti personali e quelli della macchina, poi riempii uno zaino con gli indumenti che avevo comperato per Gabriele con la scusa dei saldi. Tranne quei pochi cenci, non avevo nulla di suo se non ciò che aveva addosso quella mattina.
Infine mi avvicinai al letto.
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Accarezzai la schiena del bambino su e giù con dolcezza, aumentando di poco la pressione a ogni passaggio della mano.
Odiavo doverlo svegliare, ma non potevo restare a casa un minuto di più.
«Tesoro, sveglia» gli sussurrai vicino all’orecchio, prima di baciargli una tempia.
Gabriele emise un gemito di protesta. Mi si strinse il cuore al pensiero di doverlo lasciare a casa dei miei. Antonio mi avrebbe ammazzata.
«Gabriele» lo chiamai ancora. Quando aprì gli occhi, i suoi pugni si sollevarono a stropicciare le palpebre incollate. Il respiro era affrettato, come se nel sonno avesse trattenuto il fiato.
Mi chinai e gli baciai la fronte. Smisi di cullarlo solo quando fui certa che fosse tranquillo e desto.
«Cosa è successo?» chiese con la voce sottile. Sembrava il lamento di un gattino.
«Niente, cucciolo» lo rassicurai con un sorriso. Speravo fosse abbastanza ampio da non renderlo sospettoso. «Il mio papà non sta tanto bene e volevo passare da casa dei miei genitori. Ti dispiace venire a controllare con me?» inventai al volo.
Gabriele annuì, ma i suoi occhioni scuri si chiusero di nuovo.
Presi tra le braccia il suo corpicino addormentato e mi sollevai. Il bimbo si sistemò in modo da stare comodo, in una posa che mi lasciava le mani libere. Mi serviva solo la destra.
Spensi le luci e chiusi a chiave la porta. Raggiunsi il garage interno e adagiai Gabriele sul sedile anteriore della Lancia. Protestò un 
po’, ma non si svegliò quando gli allacciai la cintura di sicurezza.
Percorsi i due chilometri che mi separavano da casa dei miei con il cuore in gola. Avevo parlato loro di Antonio e Gabriele, senza nascondere nulla. Non erano stati felici e mi avevano posto le stesse domande che per tanti mesi avevo rivolto a me stessa. Mi ero aspettata che insistessero nel dissuadermi, ma non era successo. Non che potessero fare molto. Ero indipendente sotto tutti i punti di vista ed ero uscita di casa alla ricerca di autonomia già da due anni. Strapparsi i capelli non era nel loro stile, tagliarmi i fondi non sarebbe servito a nulla. Erano abbastanza intelligenti da non perdere tempo a programmare inutili strategie, ma soprattutto si fidavano di me.
Eppure, per la prima volta, la loro Greta avrebbe mentito.
Arrivai in via Luca Giordano che non erano ancora le 23.00. Parcheggiai in doppia fila e al diavolo la possibile multa. Non avevo tempo da perdere.
«Gabriele, siamo arrivati» gli dissi, inginocchiandomi accanto a lui dopo aver aperto la portiera dal suo lato.
Impiegai qualche minuto per farlo svegliare. Era in pigiama e a piedi nudi. Tirai fuori dallo zainetto un paio di ciabatte e, quando fu pronto, citofonai ai miei.
Se furono allarmati dal mio arrivo, non lo diedero a vedere.
Mio padre aprì la porta e l’unica reazione alla vista di Gabriele fu lo sgranarsi dei suoi occhi. Avrei voluto abbracciarlo, ritornare la sua principessa e reclamare il conforto di cui avevo bisogno.
Non era il momento.
«Buonasera» ci accolse lui, con la voce calda e rassicurante che usava con i suoi pazienti.
Via Luca Giordano, quartiere Vomero.
A sessantadue anni Claudio Liguori era ancora l’uomo di cui mia madre si era innamorata, anche se con i capelli ingrigiti e qualche ruga.
Il fisico asciutto, merito della sua passione per lo sport, ne restituiva l’immagine di un uomo più giovane. Ma non lo era.
«Papà, ti presento Gabriele» esordii senza nemmeno salutare. Pregai che intuisse dal mio sguardo la richiesta d’aiuto.
«Tu sei il papà di Greta?» chiese il bambino, il tono diffidente.
Dovetti trattenere una risata, mentre Gabriele guardava mio padre di traverso, valutandolo.
Aveva preso molto seriamente l’ordine di proteggermi. Al mare, quel pomeriggio, aveva allontanato un ragazzo da me lanciandogli la sabbia.
Mio padre sorrise, intenerito. «Sì, sono il papà di Greta. Tu devi essere Gabriele» disse, allungandogli la mano.
Gabriele si strinse a me, ma non si tirò indietro. Afferrò la mano di mio padre con forza e annuì.
«Papà, ho dovuto svegliare Gabriele perché ero preoccupata per te. Posso portarlo nella mia vecchia stanza.»
L’espressione divertita di mio padre cambiò nello spazio di un secondo.
«Hai la febbre?» chiese il bambino.
Con un cenno del capo indicai a mio padre di confermare. Rimase in silenzio per qualche secondo ma, quando parlò, non mi tradì.
«Sì, in estate mi ammalo sempre» affermò e Gabriele si trovò d’accordo con lui. L’ometto spiegò al signor “Papà di Greta” che era colpa del sudore.
Lo portai nella mia cameretta, dopo aver chiesto a mio padre di chiamare mamma. Non ci volle molto prima che lo scugnizzo si riaddormentasse.
Quando mi avvicinai alla cucina trovai i miei seduti ad aspettarmi, come quando ero piccola e dovevano discutere con me di una marachella.
«Greta non farmi preoccupare!» si limitò a dire mia madre, la professoressa Stefania. Il suo tono autoritario non mi impressionava più da anni, ma la sostanza del suo avvertimento era chiara: dovevo vuotare il sacco. Subito.
«Antonio ha avuto un incidente con l’auto» mentii. «Non sapevo a chi lasciare G-Gabriele» balbettai.
Le lacrime che avevo trattenuto tutto il giorno iniziarono a scivolarmi sulle guance. Provai a raccoglierle strofinando i palmi aperti sulla pelle.
«Greta!»
Mamma si alzò in piedi e mi strinse forte a sé. Mi aggrappai a lei, provando a smorzare i singhiozzi, ma quando mio padre si unì al nostro abbraccio non ne fui più capace.
«Lo teniamo noi» mi sussurrava mamma per rassicurami.
Mi abbeverai delle loro carezze e delle loro parole e, una volta riconquistata la calma, riuscii a convincere papà a non seguirmi.
Mamma mi accompagnò alla macchina e approfittai di quel momento per informarla dell’intolleranza di Gabriele. Stefania Ruocco era un’insegnante preparata a ogni evenienza e papà un medico. Il bambino con loro sarebbe stato bene.
«Provo a tornare prima di domani» affermai.
Dopo un’ultima carezza materna, mi misi al volante. Mandai ad Antonio il primo messaggio della giornata, poi misi in moto.
Ho lasciato Gabriele dai miei genitori. Sto venendo a Scampia.
Dio, non sapevo nemmeno se l’avrei trovato lì, ma una smania sconosciuta mi impediva di restare in casa o insieme ai miei genitori.
Meglio per strada, a Scampia, che nel mondo perfetto da cui provenivo, dove nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza del coraggio di Antonio, del suo valore, della sfida al sistema che aveva lanciato pur intuendo le conseguenze.
Quando vidi il profilo delle Vele, spinsi il piede sull’acceleratore.
Le strade erano vuote come sempre, le finestre sigillate anche in piena estate. Raggiunsi la seconda Vela e notai appena la mancanza dei drogati. La piazza di spaccio non era stata ancora riorganizzata.
Non chiusi la macchina a chiave. Prendessero anche quella, non me ne importava.
Dovevano lasciarmi solo Antonio.
Salii le scale a quattro a quattro e, quando arrivai al suo appartamento, il cuore perse un battito. Dalla finestra che dava sulla balconata non filtrava un filo di luce.
Ignorai il campanello che lui aveva montato e iniziai a colpire la porta con il pugno chiuso.
Non realizzai subito che si era aperta.
Poi vidi Antonio.
Vele di Scampia, complesso abitativo a forma di vela romana.
Spostai gli occhi dal suo labbro spaccato, al sangue che fuoriusciva da un taglio sullo zigomo tumefatto. Un occhio era quasi chiuso dal gonfiore della palpebra, l’altro era iniettato di sangue. Dalla fronte, un rivolo rosso macchiava la sua guancia come una lacrima.
Abbassai il volto e deglutii per scacciare il dolore che mi stava stritolando la trachea. La maglietta era strappata e rovinata, i pantaloni consumati all’altezza delle ginocchia. Si teneva un fianco e ogni suo respiro era un sibilo.
Sentii la sofferenza di ogni ferita sulla mia carne, la mia pelle immaginò la forza di ogni percossa. Il cuore mi si frantumò in mille pezzi.
C’era sangue dappertutto.
Un tempo, ero convinta che nulla fosse in grado di annientarmi.
Sbagliavo.


***


Non avrei voluto mi vedesse ridotto in quello stato.
Mai.
Non avevo risposto al suo messaggio per scoraggiarla, le luci in casa erano spente per la stessa ragione.
Sarebbe bastato rifiutarmi di aprire la porta per risparmiarle la visione del mio viso livido, dei vestiti che ancora non avevo tolto perché mi dolevano le spalle.
Un uomo più forte sarebbe riuscito a escludere il rumore dei pugni disperati sul pannello di legno e ferro.
Non ero forte.
Avevo bisogno di Greta.
Greta che era in piedi davanti a me, pallida e con gli occhi spalancati. Le sue labbra erano appena socchiuse, eppure non le era sfuggito un solo gemito.
Mi guardava solamente, registrando i segni delle percosse, stimando l’entità dei danni.
Perché non si avvicinava?
Avrei voluto stringerla a me, annusare il profumo dei suoi capelli, sentire il suo respiro sul mio collo.
Non osavo toccarla.
Ero sporco di sangue e polvere. Le mie mani non erano degne di posarsi sulla sua pelle candida, tenera, liscia.
Deglutii a vuoto un paio di volte, cercando qualcosa da dire, qualcosa che fosse giusto.
Non avevo intenzione di allontanarla, non più, ma non sapevo come chiederle di… restare al mio fianco.
Quando abbassò il capo, dovetti misurarmi con il timore di non aver parlato abbastanza in fretta. La mia lingua non aveva mai risposto con prontezza.
Poi mosse un passo in avanti.
Trattenni il fiato mentre si girava su un fianco per entrare in casa, facendo attenzione a non sfiorarmi.
Mi scostai e la lasciai passare. Ero turbato dal suo silenzio, ma decisi di non forzarla e attendere.
Non era scappata.
Zoppicai per raggiungerla, sorreggendomi alla parete del corridoio con una mano. Ero un rottame.
La caviglia era lussata e probabilmente avevo le costole rotte. Un’ora prima avevo messo la spalla destra in sede premendo il palmo sul muro e urlando fino a farmi andare via la voce, poi ero svenuto.
Greta accese tutte le luci e si spostò in bagno. Frugò negli armadietti alla ricerca di medicazioni, senza chiedermi dove le avessi riposte. Voleva fare tutto da sola. Sembrava impegnarsi sul serio per evitare di dirigere il suo sguardo su di me. Non voleva guardarmi.
Eppure io non chiedevo altro. Volevo specchiarmi nei suoi occhi verdi e cacciare via il dolore dalle ossa e dal cuore.
I suoi movimenti, fino a quel momento privi di forza e intenzione, si fecero più concitati man mano che si spazientiva. Non trovava ciò che le occorreva.
Le forbici caddero nel lavandino, tintinnando nel silenzio che ci avvolgeva, il pennello per la barba le seguì insieme a qualche scatola di medicinali.
Chiuse i pugni, cercando di dominare l’irritazione.
Non riuscivo a intervenire. Non l’avevo mai vista così assente.
Mi chiesi se il suo contegno fosse dovuto al mio comportamento di quella mattina. Il suo attacco di panico ancora mi provocava fitte di pentimento.
Il senso di colpa faceva più male degli ematomi.
Quando trovò ciò che cercava, mi indicò con il capo di spostarmi per consentirle di uscire. Lo feci troppo velocemente e mi sfuggì un lamento.
Greta sussultò ma non commentò. Si diresse in cucina e scostò una sedia dal tavolo per me.
Obbedii al suo ordine muto e mi sedetti con difficoltà, reggendomi con entrambe le mani al tavolo.
Prima che mi rendessi conto di ciò che stava per fare, Greta si inginocchiò sul pavimento.
«Greta...» iniziai, la voce arrochita. Lei scosse la testa. Non voleva ascoltarmi.
La nausea si sollevò dal mio stomaco insieme alla bile. Avevo provato paura, apprensione, perfino rabbia negli ultimi giorni… ma mai disperazione.
Non fino ad ora.
Mi prese una mano e me la fece appoggiare sul ginocchio, poi versò l’acqua ossigenata su un batuffolo di cotone.
Pulì ogni dito. Non avevo reagito e le mie nocche erano integre. Il sangue che le macchiava era quello che avevo tamponato dall’emorragia al naso.
Passò alle braccia, alla lacerazione sul gomito provocata dalla mazza da baseball.
Un batuffolo dopo l’altro, scuro di sangue coagulato e sporcizia, fu abbandonato sul pavimento grigio.
E Greta era… non era più assente. Era furiosa perché non riusciva a pulirmi, perché ogni striscia di pelle liberata dal sangue riusciva solo a mettere in risalto quanto fosse corrotto il resto.
Si arrese e si concentrò sul mio viso, le lacrime le allagavano gli occhi.
Non ne aveva ancora versata una.
«Greta» la chiamai, incapace di sopportare il suo dolore un secondo di più. Provai ad afferrare le sue mani, ma non ci riuscii.
Incurante del mio tentativo di bloccarla, mi tamponò il taglio sulla fronte.
La nuova posizione la costrinse a incontrare il mio sguardo.
Le sfuggì un singhiozzo e si asciugò la guancia sulla spalla con un gesto di stizza. Mi stava uccidendo.
Le presi i polsi e la immobilizzai.
Le sue dita tremavano come uccellini impazziti.
«Basta Greta» sussurrai. La mia era una preghiera.
Lei scosse la testa con violenza, provando a liberarsi dalla mia presa.
La tenerezza mi invase il cuore e la commozione mi strinse la gola.
«Piccola, basta» ripetei, usando per la prima volta un vezzeggiativo.
Io avevo bisogno di lei, senza Greta non ce l’avrei mai fatta a sopportare quella giornata. Ora lo sapevo: non era solo la mia donna, Greta era la mia migliore amica, un nuovo motivo per affrontare la mia vita complicata, la ragione per cui mi sentivo completo.
«Non riesco a medicarti» mormorò, la voce spezzata dal pianto. «Io non ne sono capace...» Mi guardò, scusandosi, implorando il mio perdono.
«Non... mi dispia…»
«Shh» le sussurrai sulle labbra. La tirai sulle mie gambe, ignorando il dolore alle costole e alle spalle. «Zitta» ribadii, stringendomela al petto, accogliendo le sue lacrime, versando le mie tra i suoi capelli.
«Mi dispiace» continuò Greta. «Mi dispiace così tanto.»
Non era colpa sua.
Non era colpa nostra.
La allontanai da me per guardare il suo volto. Mi era così caro. Era tutto.
«Sono tornato.»
Ora le avevo trovate, le parole giuste.
La mia promessa.
Ero tornato da lei e Gabriele.
«Cosa ti hanno fatto?» Il suo gemito mi graffiò i timpani. Mai più, non avrei voluto ascoltare mai più quel tono.
Provò ad accarezzarmi il viso, ma le sue mani erano scosse al punto che a stento riusciva a sfiorare i lividi.
«Sono. Tornato.» scandii, e lo feci finché lei non se ne convinse.
Poi la baciai con dolcezza, con venerazione.
Greta mia.
Modelli: Iliana Chernakova e Tobias Sorensen
Banner realizzato da Sarah Rocchia.
«Posso portarti al pronto soccorso?» mi supplicò, strofinando il naso sul mio collo e sporcandosi di sangue. Non le interessava.
Le interessavo io.
Solo io.
L’avrei accontentata. L’avrei seguita ovunque. Doveva saperlo.
La abbracciai forte.
«Tra un po’» acconsentii, poi chiusi gli occhi.
Il peso delle sue braccia intorno al collo, il calore della sua pelle a contatto con la mia, il profumo fruttato del suo shampoo… era tutto ciò di cui avevo bisogno. Ancora per un po’.



Benvenuti a Scampia. Basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia.





Questa puntata è stata difficile, più delle altre. L'argomento è duro, l'evoluzione della storia drammatica, ma ciò che mi ha creato complicazioni è stato dover descrivere il grigio.
Mi sono chiesta più volte come traferire il senso di impotenza senza tuttavia trascurare la bellezza intrinseca di un luogo vivo, brulicante di umanità.
Nei momenti di sconforto non si apprezzano i contrasti, tutto sembra uniforme, ma la luce esiste in questa storia, e non è rappresentata solo da Antonio.
Di donne come la signora Rosaria ce ne sono molte, di poliziotti come Michele anche.
Ci sono nonne, madri e padri che come Antonio, in modo meno spettacolare, lottano per difendere la propria integrità. 
Sì, nella puntata odierna Scampia è grigia, ma la stessa esistenza del grigio presuppone la presenza del bianco, quello di cui vi ho parlato qualche puntata fa, fatto di assistenza ai poveri, di volontariato, di comunità ecclesiastiche che offrono aiuto a prescindere dalla missione di evangelizzazione. 
Non dimenticatelo, e perdonatemi se oggi ho dato l'impressione di averlo scordato.
Sangue Amaro, che terminerà sabato prossimo (non è finita qui, ahimè!), mi ha donato molto, soprattutto mi ha offerto la possibilità di indagare le tonalità sfumate di un quartiere troppo spesso banalizzato, di vite appiattite in favore del sensazionalismo giornalistico.
Mi ha regalato la vostra stima. E per questo non vi ringrazierò mai abbastanza.
Spero di leggere i vostri COMMENTI e di ritrovarvi ancora qui la prossima settimana.
Vi abbraccio.

Angela


NOTE:


* Vele di Scampia, complesso di abitazioni a uso residenziali a forma di vele romane. Tra il 1997 e il 2003 sono state abbattute tre delle sette Vele. Si presentano in stato di degrado.

** Commissariato di Scampia, il commissariato è stato istituito nel quartiere nel 1997, dopo esattamente quindici anni dal popolamento delle Vele. I quindici anni di assenza delle istituzioni su un territorio ad alta densità abitativa (oltre ventimila persone abitavano le sole Vele), hanno favorito la nascita e l'organizzazione della criminalità e la creazione di oltre venti piazze di spaccio.
Intervista a Michele Spina, ex commissario --->  http://tinyurl.com/hn59y93

*** Case dei Puffi (anche chiamate Case celesti), case popolari ubicate a Scampia così chiamate per il colore scelto per gli esterni, l'azzurro.
Storicamente sede di una piazza di spaccio.
Seguendo il link potete trovare un racconto del giornalista Enrico Caria ---> http://tinyurl.com/golp6qt

**** Enrico Caria, autore satirico e regista. Ha uno spazio Blog su Il Fatto Quotidiano.
Seguendo il link trovate il suo blog ---> http://tinyurl.com/hthprww

***** Via Luca Giordano, Quartiere Vomero, quartiere collinare di Napoli. La sua urbanizzazione è avvenuta a fine Ottocento. I palazzi in stile Liberty, le aree pedonali e commerciali, i numerosi giardini, lo rendono uno dei quartieri più abitabili, agiati e ricercati della città. I suoi abitanti prendono il nome di vomeresi.



ALCUNE CONSIDERAZIONI LINGUISTICHE:
Nelle precedenti puntate sono riuscita a trovare una soluzione per le lettrici non campane, in questo capitolo non c’è stata possibilità di mediazione.
I tre spacciatori di Scampia (Gennaro, Vincenzo e Giovanni), qualora riuscissero a esprimersi in italiano, lo farebbero in modo regionalmente e localmente marcato, con una sintassi e un lessico che renderebbero difficile l’interpretazione delle frasi, motivo per cui vi lascio delle note anche per i pochi pezzi in cui si esprimono in una forma di italiano lontana da quella standard.
Lo sapete, finché posso  cerco di trovare un punto d'incontro, in generale però preferisco non snaturare personaggi e contesto.


 O’ Sicculill, il magro. Il magro è un soprannome, indica un ragazzo di costituzione esile.

O’ derì, trase. Fa’ ambress, Dritto (nel testo Antonio), entra. Fai presto. Il dritto è un soprannome, indica l’uomo retto, che riga dritto.

Capastorta, Capo/viso asimmetrico. IL soprannome indica la particolare conformazione del viso del personaggio, Vincenzo, che non è perfettamente simmetrico

Tonì, e fatt na strunzat, Antonio, hai fatto un errore/stupidaggine. 

O’ Mastin, il mastino. Il mastino è un soprannome, indica un ragazzo non molto alto e di costituzione tozza.

Stu strunz nun ha mai parlat, Questo stronzo (nel testo Antonio) non ha mai parlato.

O’ fra’, chill mo’ capisce sul l’italiano, Fratello, ora lui comprende solo l'italiano.

Tieni ragione! Allora io mo’ parlo italiano, come la femmina tua. Ti sei scordato che noi veniamo dalla monnezza, sì? Lo sai che Greta bella non basta a farti uscire pulito?, Hai ragione! Allora adesso mi esprimo in italiano, come la tua fidanzata. Hai dimenticato che noi veniamo dall'immondizia, vero? Lo sai che frequentare Greta bella non basta per ripulirti (dalla sporcizia, sottinteso)?
La frase è in italiano, ma un italiano regionale di tipo campano, per di più di matrice popolare.

Genny, a vuo’ fernì?, Genny vuoi smetterla?

On Luigi a’ ditt… ha detto, Don Luigi ha detto. 

Nun perdimm tiempo, Non perdiamo tempo.

Tu nun si nisciuno!, Tu non sei nessuno!

Prima o poi add fernì, Prima o poi deve finire.

Si ti spacc ‘a faccia, Greta se mette appaur?, Se ti spacco la faccia, Greta si spaventerà (vedendoti, sottinteso)?





7 commenti:

  1. Ogni puntata, mi provoca grandi emozioni, la tua scrittura ci porta a vivere le stesse emozioni dei protagonisti, più che leggere è quasi come vedere un film che ti fa piangere ma anche sperare di poter scorgere il verde della speranza in un grigio che occupa tutto lo spazio circostante. Strepitosa puntata, carissima Angela, aspetto sabato prossimo per l'ultima e sono io che ringrazio te di questo immenso regalo.

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  2. Ci pensa già La vita a metterti i bastoni tra Le ruote, ecco perchè odio Le manfrine di certi romance dove i protagonisti si perdono per un nonnuLLa. Sempicemente La Vita è L'antagonista, cosa che fa di aLtri romance dei capoLavori

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  3. Grazie per questa bellissima puntata...questa storia così reale e viva trascina il lettore,vorrei continuare a leggerla fino alla fine ma allo stesso tempo il fatto che ogni settimana c'è una nuova puntata mi affascina ...vorrei non finisse mai...
    Bravissima veramente scritta benissimo ..certo oggi ho sofferto molto perché l'ingiustizia che subisce Toni è così dura da digerire ma anche così vera!!!! La vita non è giusta e a volte la subisci..aspettando il momento in cui le cose si aggiustino e migliorino ❤
    Rosanna C.

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  4. Immagino sia stata dura scrivere questa puntata .... e nn immagini quanto sia stoto doloroso leggerlo ho pianto come una fontana. ..leggere di questa realtà e veramente dura !!!!ma la forza di Antonio ti da speranza che ci sarà un mondo migliore chissà. ..
    Un grazie immenso a te Angela x quasta storia bellissima
    Rosig 💚

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  5. Mi sento angosciata, ma ho speranza. È questa l'emozione che volevi trasmettere vero?
    Conosco Scampi, sono Napoletana, ma di Scampi ce ne sono tante. La speranza siamo noi, i nostri figli, i valori che gli trasmettiamo. Grazie Angela

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  6. Questa storia nn può finire sabato prossimo. È troppo bella. Voglio passare ancora in bel po di tempo con Antonio e Greta!!! Brava Angela. Sei strepitosa! !!!

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